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Abitare un territorio implica anche l'elaborazione di una serie di riti propiziatori che permettono di garantire la buona riuscita di un insediamento. Il loro livello di elaborazione è più sviluppato nelle società più antiche, mentre ai nostri giorni la progettazione e fondazione di una new town o di un quartiere satellite non sono accompagnati da una serie di riti geomantici o propiziatori.

Eppure in Friuli Occidentale la scelta del santo protettore della comunità locale è rimasta a segnare indissolubilmente il legame tra abitatori e patrono in sedi umane come San Martino, San Quirino e San Leonardo lungo il Cellina, San Vito, San Giorgio e San Giovanni nei pressi del Tagliamento, e via dicendo.  

Il successo di insediamenti che molto spesso seguivano all'insuccesso di precedenti abitatori poteva essere evocato da un patrono adatto e potente, che prendesse possesso del territorio con la sua popolazione.

In situazioni più semplici la presenza di una chiesa, di un altarino, di un crocifisso, richiama alla memoria antichi usi religiosi o di consacrazione territoriale.

Questo studio vuole analizzare la storia di una particolare struttura territoriale alpina, la bassa Valcellina, considerando due monti, il M. Lupo e il M. di San Daniele, come una sorta di cerniera territoriale e mitica tra gli spazi vallivi insediati e quelli selvaggi.

La piccola chiesa, esterna al villaggio e posta in un ambito ancor oggi di grande asprezza, è documentata già nel '200 e aveva il compito di proteggere tutto il territorio vallivo e la sua esistenza materiale e biologica. Non si spiegherebbe in altro modo la costruzione di un piccolo oratorio, mantenuto dall'ente che esercitava il potere giurisdizionale, in un luogo tanto impervio, distante dal villaggio e privo dei caratteri di un santuario.

La processione annuale che risaliva il monte fino alla chiesetta non ricordava nessuna apparizione né alcun miracolo. Al contrario, la materialità della devozione popolare faceva sì che, ancora nel '600, tra le offerte che i popolani facevano annualmente al santo, sottratto dalla fede alla ferocia delle belve, comparissero esclusivamente i prodotti dell'attività pastorale e non quelli dell'agricoltura o della pesca. Il popolo barciano regalava al santo, che proteggeva la valle dalle belve, una parte di quel prodotto pastorale che lui stesso aveva contribuito a tutelare e a moltiplicare durante il fenomeno di espansione dei pascoli a danno dell'ambiente selvaggio. La chiesa di San Daniele era una sorta di "trincea" nel paesaggio medievale della valle. Le risorse poste nel bacino idrografico del torrente Varma non erano sfruttabili dalla comunità e quindi selvagge.

L'altro versante del M. Lupo e del M. di San Daniele, per la sua esposizione e il suo carattere geologico era stato, invece, strutturato con la costruzione di un sistema insediativo progettato per mansi sparsi, non molto diverso da quello da me rintracciato a Mezzomonte di Polcenigo. Lo spartiacque era quindi la frontiera tra due paesaggi medievali ben definiti, quello agro-pastorale antropizzato in modo intensivo e quello selvaggio e primordiale. Per questo motivo, come vedremo durante la trattazione di questo saggio, la chiesa di San Daniele a Barcis rientra in un progetto più ampio di colonizzazione e di definizione insediativa delle risorse della valle. Il percorso seguito dalla processione alla chiesetta non conduceva a un luogo romito e segreto, ma si arrampicava lungo le pendici del monte coltivato e pascolato, attraversando tutte le regioni agrarie del villaggio, a partire da quelle coltivate in modo intensivo, fino al confine del territorio stabilmente umanizzato.

Questo lavoro cercherà di ricostruire, attraverso l'utilizzo di un'indagine documentaria e di una ricerca sul campo, questo fenomeno di sostituzione di un modello insediativo in crisi con uno "protetto" da un'entità superiore.

Prima di fare questo, però, bisogna sgombrare il campo da alcune imprecisioni storiografiche. Il Degani, che, intuendone l'importanza, si sofferma lungamente sulla storia della piccola chiesetta, la vorrebbe "soggetta alla parrocchia di Andreis". In verità la parrocchia di Andreis raggiunse l'autonomia solo nel 1651 e la chiesa ricordata dal Degani è in realtà San Daniele in Monticello, edificata dagli abitanti di Andreis tra il 1717 e il 1723, cioè quando la completa autonomia religiosa da Barcis convinse gli abitanti del villaggio a rendere concreta una sorta di "deriva" del culto a San Daniele. In quell'occasione però non fu scelto per l'edificazione della nuova chiesa campestre, che faceva il paio con la parrocchiale, un luogo selvaggio e inaccessibile, ma un piccolo colle posto alla fine dei terrazzi prativi del villaggio. Si trattava in ogni modo di un edificio che chiudeva, proteggendolo, un territorio intensamente coltivato al limite degli sfasci geologici del M. Cavasso e del Torrente Susaibes.

Altra cosa era la chiesa posta sul M. di San Daniele, che erroneamente alcuni storici volevano dotata di "annesso ospizio" per i pellegrini. La piccola chiesetta era il vertice di un percorso di devozione locale e non una delle tappe di un più ampio pellegrinaggio religioso. Il richiamo del culto e della fiera di San Daniele era esteso ai villaggi limitrofi , ma non sembra aver avuto quell'eco che gli attribuiva Giuseppe Malattia della Vallata, che vi avrebbe voluto in visita persino Dante. 

[continua e/o stampa l'opuscolo]

 

I testi sono di Moreno Baccichet e la pubblicazione è realizzata dal Club Alpino Italiano Regione Friuli venezia Giulia Commissione Giulio Carnica Sentieri.

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